Non è strano pensare al nostro tempo come ad un’epoca espressione del consumismo, inteso in senso stretto, come consumo di beni materiali e servizi in maniera eccessiva. Tale atteggiamento poggia le sue radici sulle condizioni socio-economiche che si sono verificate a cavallo tra ‘700 e ‘800 in Inghilterra e tendenzialmente un secolo più tardi nel resto d’Europa. Lo scenario è quello della rivoluzione industriale: una precedente rivoluzione agraria aveva permesso alla popolazione di accumulare capitale da investire nella fondazione di imprese e per acquistare beni non legati alla semplice sussistenza. La spirale che si è andata a creare è quella che ci vede oggi protagonisti.
La rivoluzione digitale legata alla globalizzazione ha reso facile ed accessibile lo shopping online, dando il via ad una vera e propria rivoluzione dei consumi, che in Italia ha avuto le sue vere e proprie origini nel Miracolo Economico degli anni ’50.
Ma non solo consumismo estremo. Dal 2018 l’Osservatorio per la Coesione e l’inclusione Sociale ha avviato un’indagine biennale incentrata sul consumo responsabile in Italia. Con questo termine intendiamo un approccio consapevole ed etico che ha lo scopo di minimizzare l’impatto negativo di un consumo massivo di beni e servizi. Gli impatti non sono soltanto sull’ambiente ma anche sulle società e sulla salute umana. Lo studio, riferito al 2022, ha confermato che il consumo responsabile in Italia è una pratica ormai consolidata.
Ma quali sono i reali rischi di un consumismo massivo e poco responsabile?
L’impatto del consumismo
Impatto ambientale: forse il primo fattore che entra in gioco anche nell’immaginario comune, vale la pena comunque di essere citato. La produzione industriale legata al consumismo ha effetti negativi sulla qualità dell’acqua e dell’aria, cerando rifiuti che contaminano le risorse idriche.
Lo sfruttamento ambientale porta anche ad un utilizzo eccessivo delle risorse naturali, tra le quali ricordiamo primariamente l’acqua, ma anche i combustibili fossili e i minerali.
La spropositata produzione di rifiuti rappresenta un ulteriore vero problema. Sono numerose le notizie recentemente rese note riguardo all’impatto dei colossi del fast fashion, come Shein che secondo i dati ogni anno genera circa 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15% viene riciclato.
Impatto sociale: il consumismo può essere fonte di disuguaglianze sociali, infatti chi ha maggiore potere economico conduce il gioco a scapito di una fetta di popolazione che ne rimane emarginata. Un eccessivo orientamento al consumismo può contribuire a un forte individualismo e ad un senso di alienazione dovuto alla concentrazione sempre maggiore sui propri bisogni materiali. Il cambiamento può essere negativo, con una crescita delle società del debito e della pressione sociale, con una ricerca del successo che risulta essere sempre più competitiva e talvolta frustrante. Le economie basate sul consumismo ne possono diventare quindi dipendenti, sia da un punto di vista economico e sia dal punto di vista del vero e proprio consumo, che se cresce in maniera esponenziale può arrivare ad un punto insostenibile.
Un’ultima riflessione riguarda l’impatto sociale legato ai cambiamenti dei modelli di lavoro, con lunghi orari lavorativi più incentrati sulla produzione che sulla soddisfazione e sul senso di realizzazione dei lavoratori.
Salute: indirettamente il consumismo delinea delle conseguenze negative anche sulla salute. Anzitutto la pressione legata al mantenimento di uno stile di vita basato sul consumo è causa di ansia e stress. Inoltre la continua ricerca della felicità attraverso il possesso di beni materiali può essere causa di continua insoddisfazione. Gli stessi impulsi all’acquisto consumistico non fanno altro che alimentare una sorta di dipendenza comportamentale che vede nel consumismo stesso la sola fonte di soddisfazione.
Non sono da ignorare le conseguenze degli impatti ambientale e sociale sopracitati.
Ma è possibile fare qualcosa? Il consumismo responsabile e il riuso possono rappresentare una parziale soluzione?
Anzitutto è importante informarsi e rimanere sempre aggiornati sui recenti studi condotti in ambito nazionale e internazionale in merito. Sensibilizzare è la parola d’ordine per essere maggiormente consapevoli e comprendere a fondo le problematicità legate ad ogni nostro comportamento. La scelta deve dunque ricadere su un consumismo più limitato, che si concentra sulla scelta di prodotti sostenibili a basso impatto ambientale e prodotto in condizioni etiche. Anche ridurre gli acquisti impulsivi per focalizzarsi sulla qualità piuttosto che sulla quantità può rappresentare una scelta nella direzione indicata.
Le possibilità sono molte: acquistare prodotti locali, sostenere marchi responsabili, cambiare abitudini alimentari e orientarle verso cibi biologici e stagionali, promuovere il riuso e il riciclo.
Questo ultimo punto è estremamente importante, ma non sembra essere visto di buon occhio dalla nostra società. Più legato ad un eccentrico slancio altruistico destinato ad essere rilegato ad una minoranza cospicua. Il mito del nuovo è legato ad uno status sociale e le abitudini di consumo sono talmente orientate al consumismo che spesso riparare un oggetto risulta essere più costoso che acquistarne uno nuovo.
Il consumismo nel pensiero filosofico
La filosofia non si è astenuta nemmeno in questo caso dall’esprimere il proprio punto di vista. Herbert Mancuse nel 1964 pubblica la sua opera “L’uomo a una dimensione”, dove discute in merito alla società industriale e al consumismo come strumenti di controllo sociale. Il consumismo, secondo Mancuse, non è altro che un mezzo per limitare la libertà individuale e mantenere la conformità.
Mancuse sostiene che il consumismo moderno contribuisce all’alienazione delle persone, perché in questo modo le trasforma in semplici consumatori passivi. La società che ne deriva è definita “unidimensionale”, quella contemporanea, caratterizzata da un pensiero critico poco sviluppato a favore di un sistema omologato. Il consumismo mina alla creatività degli individui perchè promuove una manipolazione dei bisogni reali, nel senso che porta alla creazione di bisogni che non sappiamo di avere fino a che non ci vengono presentati. Ciò è connesso, da un lato ad una società in cui l’informazione stessa e i mezzi di comunicazione sono facilmente manipolabili, dall’altro l’industria del divertimento ha un ruolo nel distorcere l’attenzione dai bisogni reali. I media digitali aiutano a veicolare tale dimensione perchè propongono in maniera massiva un grande quantitativo di prodotti e altrettante testimonianze di persone che non solo usano ma pubblicizzano i prodotti stessi. Inoltre, si crea un sistema nel quale sono coinvolti i desideri e le aspirazioni non solo del consumatore, ma anche di chi promuove prodotti e servizi.
Il filosofo esamina come il consumismo promuova una sorta di mitologia del consumo, dove il solo possesso di beni materiali è il mezzo per la realizzazione della felicità.
A tal proposito può essere interessante citare il pensiero dello psicologo e filosofo Erich Fromm che nel suo libro “Avere o essere?” del 1976 ha esaminato il consumismo nel contesto della ricerca della felicità. L’autore si è concentrato sull’alienazione che ne deriva. Le persone cercano il significato della vita attraverso il possesso e il consumo di beni materiali, dando vita ad una sorta di “narcisismo di mercato” che porta alla “fuga dalla libertà”. Il riconoscimento dell’altro in quanto persona tende a venire meno, si enfatizza al contrario la dimensione relazionale come mezzo di transizione di denaro o beni. Fromm esplora come l’essere umano cerchi la sicurezza ed il conforto nella conformazione a norme sociali e nella sottomissione ad istituzioni autoritarie, spesso scappando dalla responsabilità individuale. Questo porta ad una sorta di falsa felicità, che di per sè è fugace, perchè basata sul possesso di beni, che al contrario ha una sua validità in quanto fuga dalle insoddisfazioni quotidiane, attenuate dall’acquisto. Il filosofo non trova in tali azioni una soluzione efficace, al contrario enfatizza la necessità di una società quanto più basata sulla consapevolezza individuale e sociale, che poggia sulla creazione di legami autentici con gli altri.
Un filosofo che ha affrontato il tema del consumismo in termini relativamente positivi, è invece Gilles Lipovetsky, nel suo libro “L’era del vuoto: saggi sull’individualismo contemporaneo”. Egli individua nel consumismo il merito di aver aumentato il livello di benessere, offrendo migliori possibilità materiali ad una parte della popolazione che altrimenti ne sarebbe stata esclusa. Quello che è stato criticato precedentemente, nello specifico la conseguenza di omologazione derivata dal consumismo, viene in questo caso modificata. Il fenomeno consumistico aiuta, secondo Lipovetsky a personalizzare i consumi. In questo modo ognuno può accedere con maggiore facilità a prodotti o servizi che meglio lo caratterizzano e lo distinguono.