La cosa più difficile che l’uomo possa fare è lasciar andare. Lasciar andare quello che nella vita non gli appartiene davvero o non gli appartiene più.
Impieghiamo buona parte della nostra esistenza a costruire. La nostra vita sembra tutta da scrivere e continuamente riscrivere e questo talvolta ci rende inermi e ci stanca. Perciò ci aggrappiamo tenacemente a quello che già in passato abbiamo costruito perché ricominciare da capo non solo ci spaventa terribilmente, ma soprattutto ci stanca. Proviamo e riproviamo, cerchiamo le vie più disparate per ritagliarci uno spazio nel mondo e quando finalmente troviamo qualcosa che ci può calzare lo conserviamo gelosamente.
La natura dell’essere umano è però avventura e continui stimoli nuovi. Quando muore la voglia di fare e di costruire sempre cose nuove, muore anche una parte di noi, forse quella più profonda e recondita.
Talvolta non siamo nemmeno noi a muoverci verso una strada, semplicemente ci siamo capitati e magari camminando e camminando ci rendiamo conto che non è il nostro posto, ma ormai cosa possiamo fare? Troppo spaventoso e difficile imboccare una strada diversa, a volte i bivi si presentano davanti a noi. Altre volte, più spesso, la via è a senso unico e non ha biforcazioni. È solo lunga e tortuosa, ma unica, come una strada in piena montagna. Da un lato la roccia, dall’altro il precipizio. Non possiamo tornare indietro, solo andare avanti, con la speranza di incontrare prima o poi uno spiazzo, un paese, una seconda strada. Continuiamo per inerzia, perché che senso avrebbe fermarsi? Fermarsi equivarrebbe a smettere di andare, di proseguire.
Non sempre è così, talvolta esistono delle strade molto più complesse e la scelta è sempre dietro l’angolo, basterebbe solo mettere la freccia e girare, senza navigatore, semplicemente per la curiosità di trovarci in un posto nuovo e meraviglioso. Senza la presunzione di sapere già che quello che incontreremo non ci piacerà. Potrebbe essere peggiore o migliore, non possiamo saperlo finchè non proviamo.
Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova. È dunque l’ignoto che ci paralizza. Cullati dalla certezza di una vita sicura, ci barrichiamo in quello che a noi pare confortante e allo stesso ci sentiamo in trappola.
È Nietzsche che parla di abisso, di ignoto. Non lo definisce propriamente ignoto, ma è una interpretazione piuttosto comune. Nietzsche vive a cavallo tra l’ ‘800 e il ‘900 e sente propria la morte di Dio e di tutti i dogmi cui l’uomo si era aggrappato fino ad allora. “Dio è morto, e l’uomo l’ha ucciso” così scrive. Non intende letteralmente la morte di Dio, quanto più l’insieme di norme e regole morali fino ad allora legate al cristianesimo e alla figura del divino, che con l’inizio dell’ 900 sembrano venire meno, lasciando il passo ad una sorta di ignoto. Un abisso senza fondo in cui l’uomo può sentirsi perduto. Esistono delle varianti, delle opzioni a tali leggi morali, ma egli si scontra con il momento storico e culturale nel quale tali alternative paiono fumose. E questo pensiero può essere al contempo molto contemporaneo. L’ignoto che tanto ci spaventa è un ignoto che l’uomo ha tentato di colmare per secoli con la fede, con la speranza di un’aldilà migliore. Quale migliore consolazione che pensare che ogni nostra decisione mancata e ogni opportunità negata verranno poi ricompensate nell’aldilà, nel paradiso, sede della beatitudine.
Che a volerci pensare cosa sarà poi la beatitudine? Il raggiungimento di cosa? Dei nostri desideri, incondizionatamente. La natura dell’uomo è però più complessa di così. L’uomo strutturalmente non riesce ad accontentarsi, non può e non vuole. Schopenhauer diceva che l’esistenza è un pendolo che oscilla tra dolore e noia. Dolore perché abbiamo delle aspirazioni e dei desideri che non possono essere colmati, anche fossimo in grado di colmarne cento poi finiremmo col desiderarne altri cento. Noia perché il raggiungimento di un desiderio e di un obiettivo dà una sensazione di appagamento, che però è effimera. Dura solo un attimo e poi la noia, perché aver raggiunto un obiettivo in fondo non dà mai la soddisfazione sperata, già ce ne sono altri mille da voler raggiungere. Dunque, ci rendiamo conto che quello che ci appassiona e che ci tiene vivi è proprio il percorso che serve per il raggiungimento degli obiettivi.
Ne siamo schiavi, non possiamo farne altrimenti. Continuare e continuare a sperare, a creare, a raggiungere è la più profonda delle nature umane, anche se questo ci stanca. È una gabbia che non porta mai alla serenità duratura. Anche questo ci spaventa: l’idea che ogni passo serva per migliorare e che talvolta serva ricominciare. Non possiamo farne a meno e allo stesso tempo ci prosciuga da ogni energia.
È bene prendere consapevolezza di questa umana condizione per riuscire a godere appieno della vita. Il nostro tempo è limitato e vogliamo farlo fruttare al meglio, per questo credo sia giusto godere di quello che l’esistenza ha da offrirci. Per fare ciò talvolta è necessario continuare con coraggio lungo la strada che si è scelto di percorrere, altre volte è bene fare un passo indietro. Fermarsi un secondo, guardarsi intorno e chiedersi se il punto a cui siamo arrivati davvero è per noi, ci calza fino in fondo. Se così non fosse il coraggio per cambiare rotta diventa necessario.