La colpa. Ci dobbiamo fare i conti tutti prima o dopo, e normalmente è una costante della nostra vita. E se è vero che tutto ciò che galleggia prima o poi affonda, allora è anche vero che ogni nostro senso di colpa prima o poi va in profondità, si cristallizza e diventa parte di noi.
Questo sentimento si può concretizzare in diverse forme. C’è la colpa vera e propria, frutto di un senso di rimorso per qualcosa che noi attivamente abbiamo fatto e c’è poi la colpa che definirei riflessa, passiva, quella colpa che non è la diretta conseguenza di una scelta fatta in prima persona ma che comunque è lì, a farci monito delle nostre decisioni sbagliate.
C’è differenza tra colpa attiva e passiva?
Vi siete mai chiesti se agli occhi degli altri ha differenza una colpa frutto del nostro agire e una che invece è conseguenza traversa di un’azione che attivamente non abbiamo pianificato?
Il concetto di azione attiva e passiva è ben spiegato se prendiamo il classico esempio del dilemma del tram: siamo alla guida di un tram malfunzionante, non è possibile per noi fermarlo. Davanti a noi vediamo cinque persone sui binari che verranno sicuramente uccise se scegliamo di non fare nulla. Al nostro fianco c’è però una leva che può spostare il tram su un altro binario. Su quest’ultimo è presente una sola persona. Il dilemma è morale: uccidere una persona o ucciderne cinque? Al di là di tutte le varie interpretazioni e varianti che ne possono derivare dall’analisi di tale quesito, destinato a non trovare una risposta giusta, è interessante soffermarci sulla questione dell’azione. Se noi scegliessimo di tirare la leva, la colpa sarebbe maggiore perché l’uccisione di quell’unico uomo o donna sarebbe frutto di una nostra azione attiva. Se scegliessimo di non tirare la leva invece semplicemente l’azione di uccidere quelle cinque persone sarebbe una azione passiva, tecnicamente non abbiamo fatto nulla per impedire che il disastro avvenisse ma non abbiamo nemmeno fatto qualcosa di concreto per imputarci in prima persona la colpa della loro morte. Socialmente la scelta di non fare nulla sarebbe meglio tollerata, perché la nostra colpa viene commisurata anche al grado di “attività” della nostra azione. Non c’è giudizio in questa riflessione, non fare nulla in certi casi è comunque una presa di posizione. Che la società imputi una colpa maggiore a chi concretamente commette un illecito o un’azione immorale, rispetto a chi sta a guardare, è un’ovvietà sotto gli occhi di tutti. Se ne parla solo quando si tira in ballo l’omertà, ma è una sottesa convinzione che ci accompagna costantemente.
Il concetto di colpa ai tempi della pandemia
Applicare questo principio alla vita di tutti i giorni diventa complicato ma altresì pertinente. Pensiamo alla pandemia che abbiamo da poco affrontato e che tutt’ora stiamo affrontando. Una persona contrae la malattia e la trasmette ad un numero imprecisato di persone attorno a sè. Si può parlare in questo caso di colpa? Non nel senso vero e proprio del termine, ammalarsi non è mai una colpa, tuttavia il senso della responsabilità toccherà quella persona. Forse tale sentimento non la toccherà in primis come frutto di un suo proprio pensiero ma ci saranno la società, la famiglia, i colleghi, gli amici a farglielo notare. Abbiamo visto sfilare negli ultimi due anni un carosello infinito di persone messe psicologicamente alla gogna, ogni azione considerata normale è stata giudicata come il frutto di una imperdonabile leggerezza nel caso di positività al virus. La responsabilità è qualcosa di fondamentale anche in questo caso, ma non se estremizzata e strumentalizzata. Così entrare a contatto con una persona infetta è diventata una sorta di colpa da espiare, un fardello di cui caricare gli altri perché si sa deve sempre essere colpa di qualcuno.
L’uomo non riesce ad accettare il fatto che talvolta la colpa non stia né da una parte e né dall’altra, e così giù a cercare capri espiatori a destra e a manca. Lo si fa da sempre, in politica, in economia, in psicologia, nella quotidianità più semplice in maniera disarmante. Perché quando la colpa è di qualcuno allora pare che tutto riacquisti il suo ordine. Molto più semplice è dare la colpa al macchinista del tram che ha ucciso una o cinque persone, o a chi non ha verificato per tempo che i freni fossero guasti. Pare un’assurdità pensare che i freni si possano essere semplicemente rotti, eppure a volte è davvero così. Davvero la colpa, intesa come peso da portare sulle spalle e sulla coscienza di qualcuno, non sta da nessuna parte.
Esiste poi la colpa condivisa, talmente distribuita nelle diverse parti interessate da non essere più colpa di nessuno. Pensiamo al cambiamento climatico, all’inquinamento o all’innalzamento del livello dei mari. Non è sicuramente quel viaggio in auto che poteva essere evitato ad aver fatto scogliere la calotta polare. La colpa è del mio viaggio in auto e di quello di milioni di altre persone, talmente frammentata da consumarsi nella responsabilità di ognuno e da perdersi nella responsabilità collettiva. Ma alla fine anche in questo caso verrà caricata la colpa su qualcuno perché è sempre così: verranno chiamati in causa alcuni magnati del petrolio, qualche capo di governo che avrebbe potuto mettere in atto manovre più incisive e così tutti si faranno un bel bagno dalle proprie colpe e dalle proprie responsabilità.
La religione e il concetto di teodicea
Non deve essere un clichè ma lo tiriamo in ballo anche in questo caso: Dio. Dio è una perfetta rappresentazione di come l’uomo non sia in grado di sopportare il peso delle colpe. Non sempre l’essere umano cerca con ogni forza di liberarsi dal senso di colpa, a volte ci sguazza dentro a meraviglia e cerca costantemente di farsene carico.
Sarebbe molto più semplice poter dire che ad una azione A ne consegue una reazione B uguale e contraria. Se l’agire umano fosse di facile comprensione come una formula fisica sarebbero stati scritti molti meno libri a riguardo. Ma l’agire umano è complesso e soprattutto non è onnisciente. Non è onnicomprensivo e non può essere imputato di ogni colpa. A questo punto, e in molti altri punti di questa riflessione, l’uomo ci ha messo in mezzo Dio, perché da sempre quando non sa a chi appellarsi allora tira in ballo le forze sovrannaturali. Volontà di Dio, direbbero i cristiani convinti. Chi da sempre guarda alla religione con occhio critico direbbe: se Dio esiste ed è buono perché ha permesso questo? Una domanda questa antica quanto il mondo, già i filosofi cristiani, primo fra tutti Tommaso d’Aquino, cercavano di darsi una risposta, fallendo. Teodicea è il termine corretto. La teodicea è un termine che racchiude dentro di sé un quesito fondamentale: perché esiste il male? Perché se crediamo in un Dio buono e giusto, esiste comunque il male?
Ritornando al concetto della colpa ne potremmo trarre la stessa conclusione, se non è colpa di chi ha commesso l’azione, allora la colpa dev’essere di qualcosa di superiore. La religione porta a un punto cieco perché Dio è sempre e comunque buono e anche se a noi sembra agisca in maniera ingiusta Dio ha le sue ragioni. Anche se ai nostri occhi può apparire cattivo, comunque Dio è la versione migliore possibile di se stesso. Parlo di Dio ma non è necessariamente un Dio cristiano.
Gli atei allora hanno tirato in ballo il destino, termine laico per esprimere sempre lo stesso concetto: deve pur essere colpa di qualcuno. E allora ci sentiamo un poco rassicurati, perché almeno a qualche entità abbiamo dato la colpa.
Mentre che cerchiamo di far funzionare la nostra esistenza dovremmo avere un rapporto più sereno con ciò che accade.
La colpa nelle relazioni interpersonali
Prendiamo come esempio una relazione d’amore, partita con tutte le più romantiche ed idilliache premesse, finita tragicamente con un cuore spezzato e l’autostima danneggiata. Ci sono due tipologie di modi per affrontare la rottura: caricarsi di tutte le colpe oppure scaricarle sull’altra persona. Nel primo caso ci si fa fardello di colpe assurde, si va a ripensare a tutti i modi in cui si sarebbe potuto agire e tutte le cose che si sarebbero potute dire ma che non sono state dette. Nel secondo caso si gettano tutte le colpe sull’altro, perché ci ha ferito, perché non è stato onesto o perché a volte non ci ha detto a parole l’ovvio che era sotto gli occhi di tutti. Ma in questo caso, premesso che la fine di una relazione è sempre colpa di entrambe le parti, anche se in percentuali non sempre eque, si può parlare davvero di colpa? È davvero una colpa non trovarsi con un’altra persona? A volte basterebbe solo capire che la vita ha un suo scorrere e che le cose non sono spesso come ce le aspettiamo all’inizio, sono diverse. Non per questo migliori o peggiori, solo diverse e questa non è una colpa da imputare a quello piuttosto che a quell’altro.
Come se noi avessimo in mano la chiave di casa nostra, è notte e impieghiamo cinque minuti per infilarla nella toppa. Si incastra, non gira, eppure la toppa è sempre ferma e la chiave è quella giusta. Impegnati come siamo a cercare di beccare la toppa al primo colpo, ci dimentichiamo che a volte l’esistenza non è fatta di “al primo colpo”, anzi spesso non lo è mai. E non dobbiamo sentirci sopraffatti o responsabili per questo. Basterebbe un attimo in più di pazienza, una visione più in prospettiva per fare pace con noi stessi e con gli altri e capire che giocare al sadico gioco dell’attribuire la colpa di quanto accade non solo è estenuante ma è anche, cosa ben più tragica, inutile.