Oggi parliamo di università, questa ammirevole impresa in cui si imbarcano ogni anno migliaia di giovani, e non solo. Molti scelgono di immatricolarsi, ma molti scelgono anche di rinunciare agli studi. Sono le prospettive che apre o il semplice bisogno di conoscenza che spinge così tante persone ad iscriversi? E quali sono al contrario le motivazioni che spingono gli studenti a gettare la spugna?
In riferimento all’anno accademico 2021/2022, l’ufficio di statistica del MIUR ha pubblicato sulla sua pagina ufficiale alcuni dati interessanti. Ad oggi in Italia sono 1.833.141 gli iscritti ai corsi universitari, di cui solo 370.758 si sono effettivamente laureati nel 2021. Tolti gli iscritti che stanno ancora frequentando, ne risulta che solo una parte di chi sceglie di intraprendere una carriera universitaria sceglie anche di portarla effettivamente a termine.
I motivi della rinuncia agli studi
I motivi possono essere i più disparati. E l’analisi che ne concerne non può essere solo sommaria. L’Università degli Studi di Bari ha recentemente reso pubblica un’analisi motivazionale che possa spiegare il perché di una rinuncia agli studi, che in Italia sfiora il 30%.
Ma per comprendere il motivo di una rinuncia agli studi andare alla fonte della decisione iniziale dell’immatricolazione può risultare utile, emerge infatti che la maggior parte degli studenti compie questa scelta per una maggiore specializzazione nel mondo del lavoro, seguita solo in parte dalla volontà di approfondire le tematiche di interesse personale o per ottenere prestigio sociale o approvazione da familiari ed amici. E ne emerge anche che la maggior parte di chi ha scelto di iscriversi ad un percorso universitario per scopi lavorativi non era occupato o in cerca di occupazione. Ma veniamo alle reali motivazioni che sono emerse dallo studio condotto dal dipartimento di statistica dell’Università di Bari e che hanno forse spinto i rinunciatari a prendere tale decisione. Un percorso di questo tipo è sicuramente dispendioso, in termini economici, materiali, psicologici e in molti casi emotivi, arrivare al punto da non poter vedere una opzione valida se non quella di far decadere i propri studi non può essere dettata da sole motivazioni contingenziali. La perdita di stimoli per il proseguimento è la motivazione principale e preponderante, segue poi in buona percentuale la questione degli impegni lavorativi, del costo eccessivo degli studi universitari e la difficoltà degli esami. Per ognuno di questi aspetti sarebbe il caso di aprire una parentesi.
Il costo per uno studente e per la sua famiglia non è mai da sottovalutare, anzitutto perché la retta universitaria è molto alta, specie per le università private e non sempre scegliere tra pubblico e privato è solo dettato dalla disponibilità economica. Alcuni corsi di studio, di interesse per gli studenti, sono proposti in Italia solo da università private. E la retta e i libri di testo non rappresentano certo la sola spesa. I trasporti sono un altro problema da affrontare, alcuni comuni italiani mettono a disposizione abbonamenti o agevolazioni per gli studenti ai mezzi pubblici, ma non è certo una situazione omogenea. Per non parlare di chi è costretto a frequentare da fuorisede, dovendo far fronte a spese ingenti per gli affitti, in una società che in questo caso non aiuta lo studente, ma anzi lo costringe a doversi adattare ad una stanza, spesso malconcia, per molte centinaia di euro al mese.
La pandemia ha piegato il Paese sotto innumerevoli punti di vista, ha costretto però le scuole a reinventarsi e riadattarsi per far fronte all’emergenza. È stata introdotta in tutte le università la modalità a distanza di fruizione delle lezioni. Finita la pandemia, anziché vedere nella modalità mista, quindi in presenza affiancata da quella online, una risorsa da sfruttare per aiutare gli studenti, la tendenza è stata quella di abbandonarla in fretta e furia, per evitare che le aule si riempissero di desolazione. Quando invece una modalità del genere avrebbe potuto incentivare non poche persone a poter fruire delle lezioni, anche non dovendosi spostare costantemente o rinunciare ad impegni lavorativi per essere ogni giorno in sede.
Altri fattori che incidono sulla scelta di abbandonare gli studi sono la qualità dell’informazione ottenuta, un tutorato spesso non personalizzato e la maggiore disponibilità dei docenti. Non è un segreto che spesso e volentieri l’iscrizione all’università è a scatola chiusa. Promesse fumose, una giornata di scuola aperta e qualche brochure informativa e poi la decisione deve essere presa. I piani di studi non sempre flessibili e dei professori ancorati al loro consolidato metodo di insegnamento fanno il resto.
Ad un buon titolo di studio corrisponde un buon lavoro?
Ma se è vero che la maggior parte degli studenti sceglie di immatricolarsi per avere delle maggiori e migliori prospettive lavorative, viene da chiedersi: è davvero così? L’idea che l’università apra le porte del mondo del lavoro è una realtà concreta o un falso mito destinato a rimanere solo nella dimensione dei luoghi comuni?
Dal report dell’ISTAT in riferimento al 2022 emerge che il tasso di occupazione dei laureati tra i 25 e i 35 anni è pari all’82,1%, 4 punti più in basso di quello medio europeo e con l’aumentare dell’età, aumenta anche il gap. Senza contare il divario di genere, il 23,1% di donne laureate, contro il 16,8% di uomini non si traduce equivalente vantaggio lavorativo, dato che il tasso di occupazione femminile è del 55% contro il 75% maschile, se non altro all’aumentare dei livelli di istruzione, i tassi di occupazione femminile crescono più marcatamente di quelli maschili. Che i laureati trovino un’occupazione è quindi un dato rassicurante, ma che tipo di occupazione, è davvero migliore di chi sceglie invece di interrompere gli studi? Il recente report di Almalaurea mostra come la retribuzione mensile netta a un anno dal titolo nel 2021 sia pari a 1340 euro per i laureati di primo livello e a 1470 euro per i laureati di secondo livello, dato promettente e in crescita rispetto agli anni precedenti. Il contratto che si dimostra essere quello prevalente è da dipendente, a tempo determinato.
Bisognerebbe poi fare una finale considerazione sul tipo di lavoro che gli studenti si trovano davanti. L’attinenza al percorso di studi intrapresi è una variabile scottante. Ha fatto notizia la storia di Federica Castiglia, laureata in Ottica e Optometria che ha recentemente vinto un concorso da netturbino a Napoli. La ragazza ha rilasciato un’intervista a Repubblica dove si ritiene felicissima di aver trovare un posto di lavoro stabile, che dia garanzie. Se da un lato è bene specificare che ogni lavoro è lodevole e merita rispetto, dall’altro potrebbe sorgere una riflessione riguardante il compromesso. Una notizia del genere, per come è stata ampiamente presentata, lascia intendere che la ragazza in questione abbia le ottime qualità di spirito di adattamento e voglia di fare, che spesso vengono messe in dubbio nei giovani italiani. È importante sottolineare però che una società che inneggia e loda le scelte obbligate che la precarietà impone non sta sicuramente andando in una direzione proiettata al futuro. Ad un futuro gratificante quantomeno. I dati ISTAT sono sotto gli occhi di tutti, ma non dobbiamo dimenticare la melma di contratti di apprendistato, stage malpagati e sfruttamento di ogni tipo in cui siamo impantanati. E qui trovare delle statistiche o dei dati attendibili su ciò diventa più complicato, ma non impossibile.
Il Consiglio nazionale dei giovani, con supporto di Eures, ha recentemente analizzato le precarie condizioni lavorative di un campione di 960 giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Ciò che ne emerge è che la condizione prevalente, del 33,3% è caratterizzata da discontinuità lavorativa e la maggior parte ha uno stipendio inferiore ai 10.000 euro l’anno.
La scelta di intraprendere un percorso universitario non si può certo ridurre a qualche report e a una manciata di dati, rimane aperta però una questione importante. Investire sull’istruzione è qualcosa di fondamentale, ma non su un’istruzione cristallizzata e fine a se stessa, una istruzione che serve, che aiuta, che incentiva e che premia.