Quando possedere un film era per sempre (o quasi)
Fino a non molti anni fa, possedere un film significava entrare in un rapporto tangibile e durevole con l’opera. L’acquisto di una videocassetta o di un DVD non era soltanto una transazione commerciale: rappresentava l’appropriazione di un bene materiale che, salvo danneggiamenti, sarebbe rimasto nella nostra disponibilità per sempre. L’oggetto fisico, oltre a contenere il contenuto audiovisivo, custodiva anche un valore affettivo e simbolico: la copertina, il libretto interno, il semplice gesto di riporlo su uno scaffale contribuivano a definire un’esperienza di fruizione completa, che univa consumo e memoria.
A ben vedere, però, quella sensazione di eternità era in parte illusoria. I supporti cambiano, i lettori si evolvono o diventano obsoleti, e ciò che sembrava garantito “per sempre” è finito col diventare inutilizzabile o difficile da reperire. È accaduto con le VHS, destinate a sparire insieme ai videoregistratori, e in misura minore anche con i DVD, oggi meno diffusi. Un’eccezione parziale è rappresentata dal libro: nella sua forma cartacea resta leggibile a prescindere dalle tecnologie e, se conservato, mantiene una fruibilità praticamente illimitata.
Lo streaming e la fine del possesso culturale
L’avvento delle piattaforme di streaming ha però radicalmente modificato questa relazione. Oggi, l’accesso ai contenuti audiovisivi è mediato da un abbonamento periodico e da un’infrastruttura digitale di cui l’utente non possiede alcun controllo. Il film non “ci appartiene” più: è ospitato su server remoti e resta disponibile soltanto finché la piattaforma lo ritiene opportuno. In questo modello, ciò che si acquista non è il bene in sé, ma un diritto d’uso limitato e revocabile.
Da un punto di vista filosofico, questa trasformazione mette in discussione la nozione classica di possesso. Aristotele definiva la proprietà come ciò che possiamo usare secondo la nostra volontà, senza vincoli esterni: un concetto oggi eroso dalla logica dell’accesso temporaneo, in cui l’autonomia dell’utente è subordinata alle scelte di un intermediario tecnologico. Anche Karl Marx, riflettendo sulla proprietà privata, avrebbe potuto leggere in questo passaggio un nuovo meccanismo di alienazione: non ci è più sottratto il frutto del nostro lavoro, ma la stabilità del nostro rapporto con i beni culturali.
Anche Walter Benjamin, nella sua riflessione sull’“aura” dell’opera d’arte, offre uno spunto interpretativo. L’oggetto fisico possedeva una specificità e una presenza irripetibile, capace di legare l’opera a un contesto e a una storia. La versione digitale, priva di supporto materiale, si sottrae a questo radicamento e diventa intercambiabile, perdendo parte della sua unicità esperienziale.
Vi è poi un paradosso contemporaneo: la disponibilità virtualmente illimitata di titoli non garantisce la loro permanenza. La rimozione di un film dal catalogo di una piattaforma equivale a un oblio forzato, che si impone indipendentemente dalla volontà dello spettatore.
Il passaggio dal possesso all’accesso ridisegna così la nostra relazione con i beni culturali. La memoria diviene volatile e la cultura sembra assumere i tratti di un flusso ininterrotto, che scorre senza lasciare tracce tangibili. Forse proprio per questo il gesto di possedere fisicamente un’opera acquista oggi un valore di resistenza simbolica: un modo per riaffermare l’esistenza di qualcosa che è ancora destinato a restare e non solo a passare.